Elenco dei contenuti
- 1 Durante il mio ultimo rientro in America, sono costretta a visitare Istanbul.
- 2 Sto solo cercando di rientrare in America nel rispetto delle nuove regole di viaggio.
- 3 L’alloggio dove staremo è un piccolo boutique hotel su Istiklal.
- 4 Istanbul è una megalopoli frastagliata tra lingue di terra e di acqua.
- 5 Istanbul si trova in un punto nevralgico tra Asia e Europa.
- 6 La chiamano nel mondo la legge “marry-your-rapist”, ovvero “sposa il tuo stupratore”.
- 7 Il cibo a Istanbul è fantastico.
- 8
- 9 Il sistema di co-sharing dei ristoratori di strada a Istanbul.
Durante il mio ultimo rientro in America, sono costretta a visitare Istanbul.
Eh sì, nonostante l’incertezza del rientro, non è stato proprio una sfortuna quella di esser stata costretta, come seconda tappa del mio viaggio di rientro negli USA, a visitare Istanbul. La prima sorpresa di questa città è stato l’aeroporto mastodontico e nuovo fiammante, che sembrava uscito da un magazine sul design d’avanguardia. Ma durante la fila per il controllo passaporti, la seconda sorpresa è mio marito bloccato da un ufficiale che quasi gli sfila il passaporto di mano e lo prende per un braccio. Io mi fermo, ma l’uomo in divisa mi dice di procedere. Tra le consonanti crudeli della lingua turca, percepisco la parola terrorista. Non mi muovo, una piccola fila si forma dietro di me. Lui alza la voce. Insiste che io proceda. Sono la prima persona ad arrivare davanti al gabbiotto che corrisponde alla mia fila. La guardia, una ragazza molto giovane si raddrizza sulla sedia, vedendomi. Mi sento un po’ in un film di 007 e invece sono in un Paese dove è vivamente sconsigliato viaggiare causa attentati. La ragazza ha una bellezza aggressiva ed è davvero molto giovane, diciott’anni al massimo. Alza lo sguardo verso il passaporto che ho appena appoggiato nello scavo sotto al vetro che ci divide, ma non commette alcun contatto visivo con me, anche se io ci provo. La saluto cordialmente, ma lei non risponde. Come fosse un fazzoletto sporco, prende in mano il passaporto.
Si sistema di nuovo sulla sedia, la fa girare di qualche grado, poi avvicina il viso al passaporto come se stesse per cominciare un’operazione chirurgica. Comincia a sfogliarlo con lentezza, lo striscia coi polpastrelli, pagina dopo pagina. A volte torna indietro, scrutando ogni millimetro della pagina, anche quando questa è vuota. Poi prende a leggere i timbri che vi sono apposti. Finisce di sfogliarlo e lo rigira tra le mani, chiuso. Guarda il fronte, poi il retro, c’è lo sticker che ci ha appiccicato il ragazzo del primo tentato check-in a Dubrovnik. La mia fronte allora comincia a raffreddarsi. Lei riapre il libretto alla seconda pagina, quella dove si trova la foto e tutti i dati anagrafici. Un angolo della plastica che ricopre la pagina si è leggermente alzato, di qualche millimetro. Tocca l’angolino, quella che a scuola chiamavamo un’orecchia. Poi apre il passaporto come a volerlo squarciare, controlla la rilegatura. Trova un filo staccato, lo allunga verso l’esterno del libretto. Io sto per svenire, ma tengo duro.
Di cosa devo aver paura? Il passaporto è mio e io sono io! Non sto rubando l’identità a nessuno.
Sto solo cercando di rientrare in America nel rispetto delle nuove regole di viaggio.
La guardia alza una cornetta e chiama qualcuno. Dopo un paio di minuti un ragazzo con una targhetta sulla giacca e una tessera magnetica al collo, arriva e entra dentro al gabbiotto con lei. Lei gli mostra il mio passaporto. Gli mostra l’orecchia, il filo che pende. Parlano. Lui sembra tranquillo, lei è più animata. Il turco ancora non l’ho imparato e darei qualsiasi cosa per capire cosa si stanno dicendo. Intanto guardo indietro. Mio marito è ancora nell’angolo della fila in cui l’ho lasciato, fermato da quell’ufficiale. Il ragazzo con al scheda magnetica al collo adesso prende il mio passaporto in mano, lo scruta da vicino e poi dice a lei che va bene. Mi dice “Buongiorno, sta bene? Tutto bene il viaggio?”, rispondo “Sì, grazie, è andato tutto bene”. Capisco che ha voluto verificare che fossi italiana. Lei me lo passa dalla fessura e con una mano mi dice di sbrigarmi a passare. Un sospiro di sollievo, a dir poco. Aspetto il turno di mio marito. Anche lui deve fermarsi al gabbiotto della stessa ragazza e anche con lui lei impiega parecchi minuti, prima di congedarlo, come per tutti, d’altra parte. Ci avviamo verso il nastro dei bagagli, ma prima di raggiugnere lo schermo che ne indica il numero, un plotone di persone “in borghese” è schierata a un certo punto del percorso. Ai lati di questo plotone ci sono militari armati. È come un muro umano, di donne, uomini, ragazze col burka, signori in camicia e gilè. A caso, fermano i passeggeri. Ovviamente noi due veniamo fermati. Io da una ragazza con un burka color grigio chiaro, corto, tenuto da una spilla d’oro. Fa al mio passaporto la stessa operazione di controllo che aveva fatto l’altra. Minuti lunghi, infiniti. Finché mi lascia passare. Non ci posso credere, ma dopo aver ritirato le valigie, c’è un altro controllo passaporti. Molti profughi siriani passano attraverso la Turchia, mi dice il tassista. Sono cose che tutti abbiamo letto, ma adesso mi rendo conto che l’immigrazione siriana in Turchia è stata di proporzioni enormi, così come l’utilizzo di passaporti falsi. Il plotone di persone in borghese, infatti, parlava diverse lingue. Ho notato che dicevano frasi veloci nella lingua di nazionalità del passeggero. Francese, tedesco, inglese, greco. Dovevano verificare che non si trattasse di siriani con passaporti europei.
L’alloggio dove staremo è un piccolo boutique hotel su Istiklal.
Istiklal è la via di shopping che potrebbe essere scambiata per una Rue lussuosa di Parigi. La palazzina del nostro hotel a Istanbul è dei primi del novecento. Soffitti alti, scale di marmo, bassorilievi sul soffitto, candelabri dorati, lampadari di cristallo. Il ragazzo che ci accoglie ci conferma che i controlli dei passaporti sono dovuti alle ondate di profughi siriani e di persone che tentano di entrare in Turchia con un passaporto falso europeo. Nel 2016 c’erano sei milioni di rifugiati siriani, dopo cinque anni di guerra in Siria, e il 45% di loro viveva in Turchia. L’Europa ne aveva accolti solo il 15%, prima di chiudere le frontiere. Poi era arrivato un mezzo ricatto, dice il ragazzo che parla mentre sta registrando i nostri passaporti. Divisa informale, camicia bianca, un mucchio di braccialetti d’argento. Il suo background è un affascinante muro di antiche cassette della posta di ottone che, ci spiega, erano situate all’ingresso di questo palazzo quando era un condominio. Immagino quante parole, messaggi d’amore, di guerra, di sfratto, di morte e quante cartoline da Paesi lontani siano passati attraverso quelle cassette delle lettere. Noto che una cornice appesa dietro di noi racconta la storia di questo palazzo in cui vivevano famiglie benestanti. Poi, negli anni ’50, lo avevano occupato una serie di artisti turchi, soprattutto attori di cinema i quali crearono, proprio in questo palazzo, una specie di comunità di artisti. Uno di questi, un famoso attore, possedeva un intero piano ed era conosciuto per tenere feste molto animate. Il ragazzo sorride e prende fiato come se volesse continuare a parlare, almeno così lo interpreto io, quindi gli chiedo cosa è successo dopo l’arrivo di tutti quei milioni di rifugiati in Turchia.
“Il ricatto”, riprende a parlare il ragazzo,
“Ti riferisci ai soldi promessi dall’Europa…” gli dico
“Eh sì”, continua lui, “in cambio di 6 miliardi di Euro di aiuti, l’Europa ha chiesto alla Turchia di bloccare il flusso di migranti siriani vero l’Europa. Il governo turco però sostiene di averne ricevuto solo una parte. Noi qui abbiamo tutti molta sfiducia nel governo, non crediamo a quello che dicono.”
“E poi?”
“Poi c’è stato un attacco in Siria contro le postazioni militari turche, e con l’aumento dei rifugiati siriani verso il confine, il nostro presidente ha deciso di fregarsene del patto con l’Europa. Ha dato ordine di non bloccare più i migranti che volessero proseguire verso l’Europa. Presto arriveranno gli Afghani, il nostro Pease è il passaggio da oriente verso l’Europa.” È proprio così. Appena entro in camera, mentre sfoglio la mappa della città di Istanbul, me ne rendo conto. Da una parte il Mar Nero, che le mappe dicono essere situato tra l’Europa sud-orientale e l’Asia Minore. Non sentivo il termine Asia Minore dai tempi delle medie. Un brivido, sono in una delle culle più importanti delle civiltà antiche. Un po’ di Wiki e scopro che il Mar Nero è un lago salato di circa 440,000 km quadrati, quindi forse più grande del mio modesto Mare Adriatico. Il Mar Nero è situato nella depressione più profonda della terra, 2200 metri di profondità.
Istanbul è una megalopoli frastagliata tra lingue di terra e di acqua.
Si affaccia anche sul canale del Bosforo che sfocia nel Mar di Marmara e da lì nel Mare Egeo, Grecia. Tutti nomi che costellavano le pagine dei libri di geografia e di storia, ma che solo qui, ora, mi rendo conto dove si trovino davvero: al centro del mondo. O meglio al centro del nostro universo di popoli mediterranei.
Istanbul si trova in un punto nevralgico tra Asia e Europa.
È l’unica città al mondo che si estende sul continente europeo e su quello asiatico. È ed è stata punto di passaggio e di scambio tra le più grandi civiltà del passato
La stanza del piccolo hotel è impeccabilmente mantenuta come un tempo. Bassorilievi, legno a spina ungherese, piastrelle nere di marmo in bagno. Usciamo subito per esplorare e ritrovandomi sulla Istiklal confermo l’impressione di trovarmi in una strada di Parigi. Flotte di ragazzi con borse dello shopping camminano sorridenti, affannati, spensierati. Gli artisti di strada sono soprattutto musicisti e una ragazza con un neonato ripete una sola canzone: O’ bella ciao in turco. Un gruppo di ragazzine in sottana nera e burka nero, sbuca da una via stretta e comincia a camminare davanti a me. Avranno tredici anni, hanno zaini e libri di scuola, chiacchierano vivacemente. Mi viene in mente che poco tempo prima, il partito conservatore Akp del Presidente Erdoğan ha riproposto la legge sul matrimonio riparatore, che permette di scagionare gli uomini che sposano la vittima che hanno stuprato.
La chiamano nel mondo la legge “marry-your-rapist”, ovvero “sposa il tuo stupratore”.
Con questa proposta si vorrebbe ripulire la fedina penale di chi ha compiuto una violenza o un abuso su una donna, incluse bambine e ragazze che non hanno ancora raggiunto la maggiore età. Ma la via di negozi sfavillanti che sto percorrendo e gli outfit dei ragazzi e delle ragazza, non richiamano nulla di tutto questo. A parte le quattro ragazzine in nero.
Il cibo a Istanbul è fantastico.
In diversi vicoli, pesci e crostacei di ogni genere sono esposti sulla strada. Sono decine di mini pescherie e a fianco mini ristoranti che servono il pesce freschissimo esibito su dei banconi. Intanto, il ghiaccio viene rimpiazzato da ragazzini che appaiono dal nulla e glielo rovescia sopra. Cominciamo a ordinare gli antipasti, dei quali un campione già preparato viene mostrato su un grande vassoio, in modo che non si crei confusione sulla descrizione del menu, che è solo in turco e in inglese. Nessuno, tra il signore che ci ha fatto sedere, tipico urlatore di strada che adesca i passanti, il cameriere, né il venditore di pesce, parla un’altra lingua che non sia il turco. L’adescatore però sa dire fresh fish e “meat,” ma soprattutto gli piace gridare kebab. Con kebab, spaventa il passante costretto a girarsi, poi prosegue con fresh fish e meat e una specie di inchino per farli accomodare mentre gli cammina a fianco. Lo soprannominiamo Kebab e cominciamo a scegliere: calamari, gamberi, triglie, branzino da farci grigliare.
Il sistema di co-sharing dei ristoratori di strada a Istanbul.
La prima cosa strana che succede è che gli antipasti ci vengono serviti da un cameriere che vedo arrivare dalla strada e penso sia diretto a fare qualche consegna, invece si ferma davanti al nostro tavolo e appoggia i piatti con tzatziki, pestato di melanzane arrosto, erbe di campo crude marinate nel melograno, hummus. Delizioso. Un altro ragazzo arriva a sparecchiare, mette i piatti in una cassetta di plastica, poi gira l’angolo e scompare in una discesa. Il branzino, aperto e spinato, arriva con un altro cameriere che è sopraggiunto dalla parte opposta dalla quale era comparso il primo. La cosa mi affascina e un po’ mi preoccupa. Da dove arriva il cibo che stiamo mangiando? Dove viene cucinato? Nel frattempo, vedo arrivare dalla piccola salita un ragazzino di dodici o tredici anni con il tipico vassoio d’argento contenente cinque o sei tazze di tè bollente. A mano a mano che cammina, i negozianti e i ristoratori della stradina appostati per adescare i passanti, ne prendono una e lo ringraziano. Arrivano i calamari e i gamberi alla griglia, serviti da un terzo ragazzo che all’improvviso ci appare davanti, sempre dalla strada. Nessuno di loro è uscito dall’interno del ristorante, a parte il primo ragazzo che ha apparecchiato e poi non abbiamo più visto. In verità nessuno dei ragazzi che ci ha servito è più comparso al nostro tavolo. Alla fine, il conto ce lo porta Kebab, ma dice di non essere lui il proprietario. Ci indica come suo capo un signore giovane e pelato che sta a lato del bancone del pesce, ma ci fa capire che è un tipo scorbutico. Torniamo a mangiare nello stesso ristorante cinque volte. Ne abbiamo provati altri, ma questo è il migliore. I camerieri continuano a sbucare da ogni lato della strada e a sparire nei vicoli. Ci convinciamo che probabilmente il cibo viene preparato ai piani superiori per risparmiare spazio a piano terra. Probabilmente i camerieri lavorano per più di un ristorante e fanno la spola tra le cucine e i tavoli sulla strada. Kebab ci fa capire che diversi ristoranti hanno la cucina in comune. Non è tutto chiaro, ma tutto si svolge con armonia e efficienza e soprattutto con la serenità di questi ragazzi, colleghi di lavoro, che tra loro si sorridono gentilmente e si salutano come fossero tutti della stessa famiglia. Magari lo sono. In quella strada piena di ristoranti e finte pescherie, si respira un senso di comunità che mi scalda il cuore. Non so bene cosa succeda, non capisco nulla di quello che si dicono, ma se penso alle sfilze di ristoranti per le strade di Roma, ad esempio, in cui si fulminerebbero l’un l’altro per un cliente in più, non posso facilmente immaginare la possibilità di collaborare convivialmente come sto vedendo fare qua.
Andiamo a visitare la moschea di Santa Sofia. È come atterrare in un altro pianeta. È la vecchia Istanbul, l’altra parte, l’altra versione della città.
to be continued… Leggi la PARTE 4 del racconto “Il mio ultimo viaggio a New York, un tentato ritorno”.
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