Elenco dei contenuti
- 1 Visitare Istanbul e le retrovie, sola.
- 2 Il quartiere di Pera di Istanbul: la Soho di New York.
- 3 Mi trovo in un sottoscala con sei uomini e una donna che non conosco. Cosa da evitare se siete in visita a Istanbul.
- 4 Domanda sullo shopping a Istanbul.
- 5 Devo correre all’hotel, le spiego, verso piazza Taksim.
Visitare Istanbul e le retrovie, sola.
Nel pomeriggio prima della partenza, mi capita di addentrarmi nelle retrovie di questa città sempre più misteriosa. Mio marito rimane tutto il giorno in hotel, in tensione per la partenza, a chiamare avvocati e soci e io capisco che è arrivato il momento della mia avventura solitaria. Come tutte le vicende inaspettate che succedono durante i viaggi, è quella che mi è rimasta più nel cuore. È attraverso gli imprevisti e le cose che vanno storte, che spesso viviamo le esperienze di viaggio più belle. La sera devo incontrare un conoscente in un hotel con rooftop nel quartiere di Pera.
Il quartiere di Pera di Istanbul: la Soho di New York.
Prima di sera devo assolutamente farmi il manicure! Cerco online, ma senza successo. Tutti posti troppo lontani. Senza pensarci troppo, mi addentro nelle stradine del quartiere vicino all’hotel. Il fiuto mi dice che a due passi da quella via scintillante di shopping, esiste un mondo celato a noi turisti. Imbocco una discesa ripida e mentre passeggio, ancora dalla punta più alta, intravedo uno strappo di mare blu cobalto. Istanbul ha mare dappertutto. È difficile prendere punti di riferimento, perché se provi a farlo con la vista dell’acqua, è certo che ti perderai. Stessa cosa succede con le cupole delle moschee. Ovunque ti giri, vedi la punta di una cupola, di una moschea. Il giorno dopo capirò che di quelle cupole ne vedi molte di più nella città antica.
Proseguo, mi incammino a caso tra i vicoli. Capito in uno in cui il selciato di pietre è costellato da una distesa di mini-sgabelli, tappeti colorati e ragazzi e anziani che insieme fumano il narghilè. In un capannello, seduti sugli stessi piccoli sgabelli, dei signori giocano a domino e alzano la voce, litigano, fumano, bevono tè.
Intravedo un negozio di parrucchiere. Ecco la meta, penso.
È moderno, patinato, quasi in attrito con l’estetica decadente di quel vicolo. Mi affaccio e spiego dei parrucchieri la mia esigenza di manicure e lui mi rassicura che avrà posto per me dopo quaranta minuti. Contenta, mi avvio per un’altra passeggiata senza meta, mettendo alla prova il mio senso dell’orientamento. Dopo qualche curva e l’aspetto delle strade che diventa sempre più decadente, mi dirigo di nuovo verso Istiklal, la via dello shopping, la stessa dell’hotel. Ma un dubbio mi assale. Nel negozio da parrucchiere non ho intravisto né arnesi da manicure, né tantomeno smalti colorati. Provo a ripercorrere il mio percorso all’indietro, sbaglio una curva, torno indietro, recupero, e dopo pochi minuti sono di nuovo davanti al negozio. Il ragazzo si affaccia subito alla porta. Gli chiedo dello smalto e infatti lui conferma di non averne, dice che mi avrebbe pulito e limato le unghie.
Devo rinunciare, gli dico, e gli chiedo se conosce qualcuno. Lui ci pensa, io sto per salutarlo.
“Aspetta! Ti porto da un’amica professionista!” Mi dice entusiasta.
Afferra il giubbotto, dice qualcosa al collega e io comincio a seguirlo. Dopo diverse centinaia di metri nei vicoli e stradine in salita e in discesa, arriviamo davanti a un portone aperto di un condominio piuttosto fatiscente. L’atrio doveva essere pomposo, una volta, ma ora è scuro e poco pulito. Seguo il ragazzo mentre si infila nel sottoscala finché ci troviamo davanti a un’altra porticina. È lucente, laccata di bianco con cornici fucsia. Il ragazzo apre la porta. Da quel cunicolo di sottoscala, una stanza lucida bianca fiammante quasi ci abbaglia. Specchi, cornici barocche, smalti colorati, code di capelli vere, poi una nuvola di fumo che ci avvolge come un tornado, e una signora con un trucco accentuato e una lunga coda di cavallo ci viene incontro sorridente. Si avvinghia al ragazzo in un saluto caloroso e a me, fa segno di entrare. Sullo sfondo del sottoscala, nel punto più basso, quattro o cinque uomini sono seduti a fumare e giocare a carte. Il sottoscala è comunque attrezzato come un vero e proprio salone di bellezza. Le poltrone di pelle bianca hanno davanti uno specchio e una serie di attrezzature sia da parrucchiera che da manicure sono distribuite su mobiletti a rotelle in stile kitch. La nuvola di fumo mi tappa le narici, comincio a tossire, è insopportabile. Il ragazzo si congeda e la signora mi fa segno di accomodarmi. Mi siedo. Lei trotterella un carrello di plastica colmo di smalti, acetoni e attrezzi. Gli occhi cominciano a lacrimarmi. Intanto i fumatori non pongo nessuna attenzione a noi. Dico a alla signora che non posso restare, che il fumo mi da troppo fastidio. Lei è dispiaciuta e con un buon inglese e poi anche in francese, mi dice che caccerà via gli uomini. Le dico che ho un’allergia al fumo, anche se non è vero, quindi non riuscirei a starmene lì dentro per la durata di un manicure. Ed è vero. E poi sto cambiando idea. Gli attrezzi saranno puliti? Chissà cosa mi combinano? Meglio andarmene ora, non so nemmeno bene dove sia finita. Ho seguito il ragazzo e non so se saprei tornare facilmente indietro.
Mi trovo in un sottoscala con sei uomini e una donna che non conosco. Cosa da evitare se siete in visita a Istanbul.
Inoltro, mi trovo chiusa dentro alla porta di un sottoscala dalla quale, se dovessi gridare, nessuno mi sentirebbe.
La signora è imbarazzata, la coda di cavallo rosso fuoco oscilla mentre cammina verso i bellimbusti fumatori. Scambia due parole con loro e questi si alzano, mi salutano tutti e se ne vanno. Io insisto perché restino. In ogni caso, la stanza è impraticabile. È densa di fumo. È inutile che se ne vadano. La signora però mi supplica. Allora ho un colpo di genio e le chiedo se si potesse fare il manicure sul tavolino che si trova fuori dal portone del condominio. Lei è scettica, chiama una ragazzina che sbuca dalla fine del sottoscala, le dice qualcosa, e poi accetta. Sarà la ragazzina a farmi il manicure. Insieme spostano una poltrona del salone fino alla strada. A quel punto sono lì. Di fronte a me la strada piena di negozietti e un piccolo supermercato. La signora con la coda di cavallo rosso fuoco diventa sempre più simpatica. Rimane in piedi mentre la sedicenne che non parla nessuna lingua da me intuibile, si siede di fronte a me e comincia a lavorare alle mie unghie. Le chiedo solo di limarle e di darmi lo smalto. La signora traduce. Scelgo il colore bianco solido.
Dal portone del condominio escono due elettricisti, dobbiamo spostare la poltrona. La signora traduce che hanno appena staccato l’elettricità, ma sorride dicendo che noi siamo fortunate. Siamo sulla strada e ancora c’è luce. Anche se durerà poco, penso. Si sta facendo buio. La ragazzina comincia con lo smalto con molto impegno, ma si capisce che non ha dimestichezza. Sbaglia diverse volte. Lo toglie con l’acetone, poi ricomincia. La signora si arrabbia. Parlano in arabo, credo, non in turco. Poi la signora mi racconta del suo sogno di diventare attrice. Avrà quasi sessant’anni ed è ancora molto bella. Ha padre palestinese e madre filistea. Che ancora ci sia un popolo definito filisteo, proprio non lo sapevo. Pensavo fossero quei popoli estinti, tipo i fenici. Mi sento estremamente ignorante.
“Non ho niente di turco, dice lei. Questa gente è grezza, maleducata in confronto a noi!” Dice riferendosi ai palestinesi. È sposata con un siriano, ama i turisti e ora prosegue coi suoi racconti di viaggio in altre zone della Turchia, mentre la ragazzina sbaglia ancora un’altra unghia, la signora la sgrida, ma io sorrido, sono imbarazzata per lei, dico che non ho fretta, che non deve preoccuparsi. La ragazzina è arrossita e ogni volta che viene sgridata le mani cominciano a tremarle, cosa che peggiora la sua prestazione.
Intanto, l’andirivieni nel palazzo si fa sempre più cospicuo. Arriva una ragazza con capelli quasi rasati e la signora me la presenta come la proprietaria del suo negozio, quindi del sottoscala. La ragazza gonfia il petto, accende una sigaretta. Mi sembra giusto sentirsi orgogliose di possedere un sottoscala, specialmente in una zona centrale come quella, le dico. Finalmente la ragazzina finisce il manicure, se così si può chiamare. La signora controlla le mie unghie e chiede alla ragazzina di correggerne una, ma io mi oppongo. Si è fatto quasi buio. Devo controllare il telefono, in caso sia arrivato il messaggio dal consolato americano di Napoli. Ma nulla. Chiedo alla signora dove posso comprare una sciarpa di seta per un regalo che voglio fare.
Domanda sullo shopping a Istanbul.
Con questa domanda faccio il mio più grande errore della giornata. Ne ho già comprate otto, di quelle sciarpe. Sono bellissime, di una seta finissima, ma da lì non saprei ritrovare il vicolo in cui le ho comprate e lei si offre di accompagnarmi. Comincio a seguirla, finché la signora mi prende amichevolmente a braccetto dicendomi che la Turchia è piena di contagi Covid e che è tutta una bugia, quella dei contagi bassi. Procediamo almeno due chilometri. Da lontano mi indica lo stretto del canale del Bosforo. Poi prendiamo una discesa ripida. Lei sembra una gazzella, è snella, il passo sportivo, saluta molti negozianti, mi presenta come una sua amica italiana. Arriviamo dove presumibilmente deve trovarsi il negozio, ma questo non esiste più. Lei si agita, chiede ai negozianti lì a fianco, non può farsene una ragione. Scuote la testa e mi chiede di proseguire. Io le dico che non importa, che preferisco tornare indietro, lei dice che lo troverà, scalpita, si è intestardita. Vedo un orgoglio ancestrale salirle alla gola, le si rizza il collo, con una mano si sistema la coda, poi si mette il rossetto e riprende a camminare ad alcune decine di metri davanti a me, girandosi ogni pochi passi, per assicurarsi che io la segua. Ma io devo tornare in hotel, farò tardi per l’appuntamento di stasera. E mentre scivolo per queste stradine ripide e di tanto in tanto rallento, tentata di tornare indietro senza dare nell’occhio, noto che un ragazzo mi sta seguendo da molto vicino.
Guardo la signora, il ragazzo. Un’imboscata.
Mi faranno infilare in un vicolo e poi, lei davanti e lui dietro, mi deruberanno. Allora mi fermo. La signora grida di sbrigarmi, ma questa volta mi impongo. Rimango immobile come un mulo su una montagna. Lei mi guarda dal basso, supplicandomi, intanto il ragazzo mi oltrepassa, sembra indifferente. Allora la signora risale verso di me, si scusa mille volte, piega la testa in avanti, è incredula, dice, quel negozio di sete esiste da trent’anni! Poi mi riprende a braccetto.
Devo correre all’hotel, le spiego, verso piazza Taksim.
Ci fermiamo in un punto in cui Istiklal incrocia due piccole traverse. Lei mi saluta caldamente, in un orecchio mi dice che in Turchia c’è una dittatura, che tutti devono tacere, che se non ci fossero i siriani a lavorare, quella città sarebbe ferma. Sono i più preparati, i più istruiti, mormora. Ci dividiamo, lei prende a sinistra, io proseguo lungo Istiklal, la vedo allungare il passo, le gambe sottili, la lunga coda rossa che oscilla, fiera e impettita. Avrebbe potuto avere una bella carriera come attrice.
In camera. Ma dove diavolo sei stata? Faremo tardi. Un giro. Il manicure? Sì, l’ho fatto, ti racconterò.
Continua a leggere: Parte 5. Istanbul Babele.
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