Elenco dei contenuti
- 1 FUGA DI CERVELLI
- 2 TRASFERIRSI NEGLI STATI UNITI
- 3 IL PRIMO IMPATTO CON NEW YORK?
- 4 TERAPIA GENICA: A COSA STAI LAVORANDO?
- 5 PER UN RICERCATORE, LA SCELTA TRA AMERICA E ITALIA
- 6 CONSIGLI PER UN RICERCATORE ITALIANO CHE VIENE NEGLI STATI UNITI
- 7 I RISCHI DI UNA CARRIERA DA SCIENZIATO
- 8 LA SCIENZA, COS’E’ PER TE?
FUGA DI CERVELLI
Sabrina incarna il fenomeno di Fuga di cervelli che coinvolge molti giovani italiani che emigrano all’estero. In America, sono emigrati in maniera massiccia negli ultimi 20 anni. I ricercatori in particolare, puntano molto agli Stati Uniti. Sono stati circa 4.000, infatti, i ricercatori e professori universitari italiani del Nord America, under 40, che nel 2021 si sono riuniti a Washington e sono stati premiati dal ISSNAF.
Ma vivere e fare gli scienziati si può?
Sabrina ama la vita, che vuol dire tante cose, ma per lei vuol dire soprattutto distanziarsi dallo stile di vita imposto dal suo lavoro. Lo ha detto per la prima volta ai suoi colleghi lasciandoli di stucco e anche un po’ offesi. Reazioni incomprensibili per i comuni mortali, ma per chi conosce il mondo della ricerca, sa di cosa si parla. Sabrina ha 35 anni e, da due, è una scienziata all’ospedale Mount Sinai di New York nel reparto di cardiologia e si occupa di terapia genica. A parte i traguardi professionali e la passione che ha per il suo lavoro, è diversa dai classici ricercatori. Per arrivare a questo livello di carriera Sabrina ha fatto molti sacrifici, ma sempre con un sorriso curioso e un piglio ironico sul viso. La sua attrazione per l’avventura, poi, che va dallo scalare montagne a veleggiare in mezzo all’oceano, e le passioni per la danza, le immersioni subacquee, il buon cibo e il buon bere, la rendono una scienziata atipica. Non che i ricercatori non amino l’avventura e non amino vivere, ma molti di loro si dimenticano di farlo. La vita della ricerca è una vita quasi monastica, che richiede dedizione assoluta. È questo il messaggio subliminale che si riceve quando ci si approccia a questo settore, in qualsiasi parte del mondo ci si trovi. E Sabrina, nel suo piccolo e col suo esempio, ha provato a scardinarne i paletti. Sono poche le donne che riescono, infatti, a ricoprire ruoli importanti nella ricerca e ad avere una famiglia.
COME HAI COMINCIATO?
Gli inizi sono stati complicati. Dopo la laurea in biologia all’università di Padova, volevo proseguire per studiare biologia marina. Era la mia grande passione fin da quando ero ragazzina. Ero attratta non solo dalla vita negli abissi, ma proprio da quella che conducono i biologi marini: girare il mondo su una barca, attraversare gli oceani, essere sempre in viaggio, in mezzo alla natura, soprattutto a contatto col mare, un elemento che mi ha sempre attirato tanto. Ero pronta a partire per l’Australia dove avrei fatto la mia prima esperienza con un gruppo di biologi marini, ma le stelle per me si sono allineate diversamente. Mia madre si è ammalata e in quel momento l’unica cosa che volevo era starle vicino. Sapevo di non poter continuare con la biologia marina perché mi avrebbe portato a viaggiare continuamente e così ho scelto un’altra disciplina che mi interessava, le neuroscienze.
TRASFERIRSI NEGLI STATI UNITI
Come è successo per te? Nel 2016 vado a un congresso a Seattle. Durante il primo break dalle conferenze, alla caffetteria, conosco quella che sarebbe poi diventata la mio mentore. Chiacchieriamo, scopriamo di avere gli stessi interessi scientifici e poi ci siamo avvicinate al banco e tutte e due abbiamo ordinato un caffè espresso. Ci siamo guardate e lì è scattata la scintilla. Lei ha nonni italiani e questa comunanza di tradizioni ha aiutato il nostro rapporto di amicizia. È una scienziata tedesca ed è stata lei che mi ha portato negli Stati Uniti, invitandomi a lavorare per 4 mesi nel suo laboratorio in Virginia.
E LA VIRGINIA?
Ho vissuto quattro anni e mezzo a Charlottesville. La Virginia è parchi naturali, fauna selvaggia, passeggiate, hiking, centri commerciali, quiete di piccole cittadine dove i centri di ricerca sono il fulcro della vita sociale. Non corrispondeva proprio alla mia idea di Sogno Americano… L’arrivo però è stato divertente. Il mio ex-capo continuava a dire che non vedeva l’ora di mostrarmi le montagne di Charlottesville e io, abituata alla Dolomiti, mi aspettavo chissà cosa. Il giorno del mio arrivo, entro nel suo ufficio, lei apre subito le finestre e mi dice ‘guarda che belle, le montagne!’, e io scoppio a ridere. Non sapevo come spiegarglielo… Le montagne non c’erano, erano collinette che secondo lei erano uno spettacolo.
POI HAI INCONTRATO QUALCUNO…
Ho incontrato un ragazzo americano e ci siamo innamorati. Anche se la Virginia non era il luogo che avevo sognato quando era partita per gli Stati Uniti, ho pensato che con lui avrei potuto farmela andare bene. Insieme abbiamo viaggiato tanto, soprattutto in Italia e negli State, ma anche in giro per l’Europa, finché è scattato il fidanzamento ufficiale e sono cominciati i preparativi per il matrimonio. Ma lui ha perso il lavoro, è entrato in una profonda depressione e dalla sua necessità di un break, il nostro lungo fidanzamento si è interrotto. In America, un uomo senza lavoro si sente una nullità. È difficile convincerlo che il suo valore può essere un altro e non solo quello lavorativo. Ma forse è così pre tante persone. Forse non si può generalizzare, ma la mia impressione, confrontandomi anche con amici, è che in America più che in altri luoghi, il successo professionale sia ciò che definisce la persona. Insomma, per noi due era finita. La scelta fatta era irreversibile. E abbiamo cancellato tutto. Gli amici e i colleghi in Virginia mi sono stati molto vicino, ma niente mi bastava a ritrovare la serenità.
E POI SEI FINITA A NEW YORK?
No, non ci sono finita…A New York ci sono voluta andare a tutti i costi. Come dicevo, io amo vivere e a quel punto ho deciso che avrei dato una svolta alla mia vita cambiando innanzitutto luogo. Volevo a tutti costi venire a New York e ho cominciato a inviare richieste di lavoro. Era questa la città che sognavo quando mi ero trasferita negli Stati Uniti la prima volta. Atterrata in Virginia, infatti, avevo due valigie piene di vestiti da indossare nell’America dei trend e delle grandi occasioni, ma lì ero riuscita a usarne forse un paio. Era ora di aprire quella valigia e sfoderare la mia grande voglia di città. Alla fine del 2019 mi arriva la risposta per una posizione di post-dottorato al Mount Sinai. Preparo tutto, carico il minivan e insieme a un’amica, partiamo alla volta della Big Apple. Guidiamo per sette ore ed è esattamente l’alba quando imbocchiamo il ponte di Brooklyn. Il sole era rosato alle nostre spalle. Illuminava i palazzi di Manhattan mentre nell’abitacolo avevamo Frank Sinatra che cantava New York, New York.
IL PRIMO IMPATTO CON NEW YORK?
Il timing del mio arrivo è stato devastante. Due mesi dopo il mio arrivo, purtroppo arriva anche il Covid e poi il lockdown. Anche nella città che non si ferma mai, si blocca tutto. Per me sono stati mesi davvero difficili. Ho sofferto molto di solitudine. Ero in una città sconosciuta, in un laboratorio nuovo e poco amichevole, senza conoscenze se non quelle di qualche amico di amici che era già rinchiuso in casa. Inoltre, avevo il cuore ancora malandato. Mia madre era mancata nell’estate precedente e poi c’era stata la rottura col mio ex ragazzo. Mi ero chiusa in me stessa. Avevo anche smesso di parlare, cosa per me è davvero impensabile. Io sono una che ama conversare con tutti.
Mi ero appena sistemata nel monolocale che mi era stato dato con un affitto agevolato dal centro di ricerca Hess del Mount Sinai, ma vivere sola nei mesi di lockdown è stata molto dura. Continuavamo l’accesso al laboratorio a giorni alterni, in un clima di terrore, ovviamente e con colleghi che non si permettevano di scambiarsi nemmeno due parole. È stato un supplizio.
Inoltre, a New York l’impatto col rigore e la durezza del mondo della ricerca è ancora più estremo. In America sei un po’ un numero, o meglio, sei il numero di pubblicazioni che hai. Hai la sensazione di non essere più una persona. E poi la competitività è spietata. Non hai la sensazione di essere in mezzo ad amici, ma a persone che con te competono. Questa è una delle cose che io ho cercato di cambiare nel mio laboratorio. Ci ho messo tanto, ma ce l’ho fatta.
VITA DI LABORATORIO
Al mattino ad esempio, nessuno diceva buongiorno. Io, come italiana, volevo dare il bel buongiorno e tutti e magari prendersi un caffè insieme prima di cominciare a lavorare. Non sapevo come rapportarmi, anche perché ognuno, nel mio team, viene da una nazione diversa e ha una cultura diversa. Un ragazzo vietnamita, da tre anni, andava tutti i giorni in laboratorio. Nei weekend, il giorno di Natale, del Ringraziamento. Una follia, io ho cominciato a prenderlo in giro e piano piano siamo diventati amici. E comunque l’idea era che non si diventa amici in laboratorio, si lavora e basta. Io non voglio questo dal mio lavoro e ho cominciato a cercare modi per potersi incontrare.
TERAPIA GENICA: A COSA STAI LAVORANDO?
Ora sto lavorando a una terapia che possa, diciamo, limitare le conseguenze degli attacchi cardiaci. In particolare, il mio lavoro si focalizza nell’usare nano vescicole circondate da una membrana lipidica e riempite di un particolare virus (AAV) che non è dannoso nell’uomo e non è mutagenico ma che può essere usato come veicolo per integrare un particolare gene. In questo modo si migliora la presenza/produzione di una proteina che nel suo ambito significa modulare la contrattilità muscolare dopo un arresto cardiaco. Inoltre, sto lavorando per migliorare la produzione di queste vescicole AAV incapsulate con nuovi nano dispositivi che possano incrementare la produzione in larga scala e purificarle da diverse contaminazioni.
PER UN RICERCATORE, LA SCELTA TRA AMERICA E ITALIA
Per un ricercatore italiano, poter venire a lavorare in America è un sogno! L’America, innegabilmente presenta opportunità che in Italia non esistono. La ricerca qui è un vero e proprio lavoro, riconosciuto e ben pagato. In Italia no. È una carriera per pochi eletti. L’Italia è bella, ma per chi cerca una carriera nella ricerca, purtroppo non ci sono mezzi e opportunità. I fondi, in Italia arrivano soprattutto da associazioni private, normalmente costituite da persone che hanno perso qualcuno per una determinata malattia e desiderano foraggiare la ricerca con lo scopo di arrivare a una cura. In America i fondi arrivano da tutti i canali. Dal governo, dagli enti locali, dai privati che li deducono dalle tasse. E poi ci sono le grandi farmaceutiche. Qui è tutto un altro sistema.
CONSIGLI PER UN RICERCATORE ITALIANO CHE VIENE NEGLI STATI UNITI
Innanzitutto prepararsi a quello che dicevo prima, cioè al fatto che qui sei un po’ un numero e poco una persona. Che c’è da lavorare molto duramente e che vale la pena combattere per portare la nostra umanità italiana, anche se all’inizio sembra di scontrarsi con muri di gomma, perché poi viene capita e apprezzata. Lasciare l’Italia è un grande passo, comunque, non è facile. E devi farlo con l’idea di adattamento alla nuova cultura a cui vai incontro. Non puoi pensare di portarti dietro gli standard, le abitudini e i buoni vizi italiani.
I RISCHI DI UNA CARRIERA DA SCIENZIATO
In questo Paese ti senti un po’ un numero, più che in Italia. Tu sei il numero di pubblicazioni che hai, sei il numero di riconoscimenti che hai raggiunto. Qui il titolo è molto più importante della persona. E poi la mentalità è quella dei due opposti, purtroppo. Sei vincente o perdente. O sei l’uno o sei l’altro. E questo è molto pericoloso.
COSA TI HA AIUTATO?
È stata l’energia di New York che mi ha fatto tornare a vivere. Ho capito che dovevo muovermi, uscire, camminare per le strade, correre a Central Park e fermarmi ad osservare ogni volta che venivo colpita da qualcosa. Mi sforzavo di evocare la sensazione bellissima di libertà e di sorpresa che avevo provato in quell’alba di giugno sul ponte di Brooklyn. E quando tutto ha riaperto, la città non mi ha tradito. Ma devo molto innanzitutto a mio nonno, con cui sono cresciuta, e ai suoi consigli. È lui che ci ha ficcato in testa l’importanza di godere la vita, che vuol dire non solo cercare le cose belle della vita, prendersi tempo per sé, per le proprie passioni, ma anche avere un significato. Io quel significato l’ho incontrato e non è tutto nella ricerca.
CONSIGLI PER CHI ARRIVA A NEW YORK?
New York è una città spietata, uno deve esporsi, buttarsi, deve mettersi in gioco e sfidare se stesso. Nessuno viene a cercarti, se non sei tu a cercare loro. La vita del ricercatore, poi non dispensa molto tempo libero e questo è un problema quando si arriva in una città nuova. Quindi bisogna darsi da fare per trovare occasioni per socializzare e la città ti ripaga.
LA SCIENZA, COS’E’ PER TE?
La scienza non è tutto e non è la risposta a tutto. Rimangono molte cose della mentalità che ho trovato qui negli Stati Uniti che non approvo. La scienza è vista come qualcosa di onnipotente, di certo e assoluto. È vista come ciò che potrà assicurare la felicità. Ma non è così. Non possiamo demandare tutto alla scienza. Siamo uomini e dobbiamo rimanere tali. Coi nostri dubbi, le nostre intuizioni, le nostre priorità, i nostri errori e i nostri fallimenti.
Sabrina, nel laboratorio del Mount Sinai Hospital a New York, ha finalmente introdotto l’abitudine di salutarsi al mattino e anche di prendersi un caffè insieme, cose che prima non accadevano. Pretende che ogni tanto si pranzi insieme e non sempre isolati. Dopo quasi un anno ce l’ha fatta. È anche stata la prima a invitare i colleghi a cena a casa sua i quali, strabuzzando gli occhi, hanno accettato. E col tempo è riuscita a creare un team di persone provenienti da culture molto diverse che ora non sono solo dei colleghi, ma persone che condividono qualcosa di più degli esperimenti di laboratorio.
Quella di Sabrina è una storia di grinta, di sacrifici, di solitudine e di grandi soddisfazioni. Sia professionali che personali. Ha sempre continuato a combattere, davanti agli ostacoli e ai momenti difficili, ma soprattutto ad accoglierli come una sfida e un modo per crescere, sforzandosi allo stesso tempo di non accettare lo status quo quando questo interferiva con la sua umanità. Forse la scienza ha rimarginato un po’ anche il suo cuore, non solo quello delle vittime di arresti cardiaci, ma forse non importa. Rimanere se stessi esplorando con vera curiosità ciò che la vita ci mette davanti, potrebbe essere il suo motto, ora più che mai, che ha scelto l’esperienza americana.
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