Elenco dei contenuti
- 1 Siamo al capolinea del mio ultimo viaggio di ritorno negli USA.
- 2 Siamo arrivati a New York, siamo negli Stati Uniti.
- 3 Visto per gli Stati Uniti
- 4 L’esperienza del viaggio a New York su Instagram
- 5 Gli ufficiali dell’immigrazione americana hanno il potere di decidere della vita delle persone, senza limitazioni.
- 6 bisogna gridare, sbattere qualcosa e chiede di poter chiamare il proprio avvocato.
- 7 Un tribunale senza giudici, senza avvocati. Un tribunale in America in cui non sai che reato hai commesso.
- 8 Il timing è tutto, la tempistica è il nostro destino, mi disse la prima persona che mi fece un colloquio di lavoro a New York.
Siamo al capolinea del mio ultimo viaggio di ritorno negli USA.
Eccoci diretti finalmente alla meta del mio ultimo viaggio a New York dopo le travagliate, improvvisate e straordinarie tappe a Rimini, Dubrovnik e Istanbul. Se l’aereo non dirotta, dopo quattordici giorni di spostamenti pre-partenza, ce la dovremmo fare. Questa quarantena forzata in giro per l’Europa, però, mi ha provocato nostalgia. Nolstalgia per il Vecchio Continente, per il profumo di storia, per le radici che in ogni Paese europeo sono così distinte e sentite. Per qualcosa che in qualche modo sembra più profondo, più sostanzioso e più misterioso del moderno e vaporoso Nuovo Mondo degli Stati Uniti.
È già sera inoltrata, quando atterriamo al JFK. La fila all’immigrazione è piuttosto lunga, come al solito. Di fronte al ragazzo che prende in mano i nostri passaporti, a questo punto siamo calmi, stanchi, rassicurati dal fatto di essere alla meta.
Siamo arrivati a New York, siamo negli Stati Uniti.
Nessuno ci può fermare, è il primo, ingenuo pensiero che ho. Ma non è proprio così.
Visto per gli Stati Uniti
Il visto che siamo costretti a presentare è un visto ridicolo, col quale non avremo nemmeno la possibilità di lavorare, cioè di ricevere compensi. Ma per ora l’importante è riuscire a rimettere piede in suolo americano. Il visto originale è scaduto durante l’attesa di questi due anni per la green card. Il ragazzo, ufficiale dell’immigrazione, ci chiede sospettoso come mai deteniamo questo tipo di visto. “Siete in viaggio a New York?” ci chiede. “Avete mai avuto problemi a lavorare in America?” E noi gli spieghiamo la trafila. Lui capisce. Vede sul nostro passaporto decine di timbri di entrata negli Stati Uniti, ma non solo. Sul suo terminale sicuramente è apparsa tutta la nostra storia di vita in questa nazione. Mentre ci prende le impronte digitali però, ci informa che a nostro carico c’è una brutta segnalazione che va immediatamente risolta.
Mio marito non si trattiene e sottovoce, il bastardo francese della Delta! mi dice. L’ufficiale, con fare quasi dispiaciuto, dice che dovrà indirizzarci nello stanzino, chiamato anche, tra gli immigrati italiani in America, il gabbiotto. Ma il ragazzo dice che non dobbiamo preoccuparci, che lo deve fare perché il nostro record, tipo la nostra fedina penale, venga ripulita. Ripulita da cosa??? Non ho finito di chiedermelo che un altro ufficiale, un ragazzo robusto afro-americano, somigliante a Tyson, ci scorta dentro al gabbiotto. Se uno ha scelto di vivere negli Stati Uniti, nil gabbiotto è uno dei più grandi incubi.
L’esperienza del viaggio a New York su Instagram
Hai messo tutte quelle stupide foto su Instagram come se foste in vacanza, mi aveva detto mia zia dall’Italia quando l’avevo chiamata da Dubrovnik. C’è gente invidiosa! Ti porteranno sfortuna! Queste sono le prime parole che mi rimbalzano in testa mentre seguo Tyson verso lo stanzino del terrore e, passo dopo passo, sento gli sguardi compassionevoli degli altri passeggeri sempre più addosso.
Lo stanzino sa davvero di gabbiotto. Soffitti bassi, muri blu. Quattro ufficiali sono dietro a un bancone alto, di fronte alla porta. Tyson che ci ha scortato, ci fa accomodare. Da un lato, una famiglia di indiani con due bambini piccoli. Dall’altro, due signori sui settant’anni con un ragazzo, sicuramente il figlio. Poi tre ragazzi soli, molto giovani e molto preoccupati. Ogni nucleo è seduto nel proprio angolino. Siete in viaggio a New York per turismo? Chiede ai ragazzi uno degli ufficiali dal bancone. Ma loro sembrano non capire la lingua. Si respira tensione.
Gli ufficiali dell’immigrazione americana hanno il potere di decidere della vita delle persone, senza limitazioni.
Perché diavolo hai messo quelle foto della vacanza? Ricorda le invidie! Smettila con ‘sta storia di condividere l’esperienza di viaggio! Sento la voce di mia zia.
Il tempo d’attesa forse non è stato lunghissimo, ma mi è sembrato infinito. Finalmente chiamano i nostri nomi. Il cuore mi balza in gola come per gli esami all’università, quando devi essere giudicato da qualcuno che ha quell’immenso potere. Una sensazione che non ricordavo da tanto tempo. Ma allora c’era anche l’adrenalina di volersi mettere alla prova, di dare il meglio di sé e vedere con quale voto sarei stata valutata. Qui c’è il nulla, da parte nostra. Nulla che possiamo fare. C’è impotenza. E anche molta umiliazione, dopo più di vent’anni a vivere, lavorare e pagare tasse in America.
Una linea gialla indica di quanto ci si può avvicinare al bancone. L’ufficiale digita al computer, concentrato, non proferisce parola.
“Da dove arrivate?” dalla sua bocca contrita esce un suono rapidissimo.
“Da Istanbul, Turchia” rispondiamo
“Dove siete stati prima della Turchia?”
Ecco. Quelli sono stati i secondi più tesi e più intensi che abbia mai vissuto. Perché quello che è successo nel dare risposta a quella domanda, è stato inconcepibilmente surreale.
Alla domanda dell’ufficiale, dove siete stati prima di arrivare in Turchia?, contemporaneamente, io e mio marito rispondiamo:
Io “Croazia.”
Lui “Bosnia.”
Io non credo alle mie orecchie! Nei secondi successivi a quella maledetta, inspiegabile risposta, il tempo si è dilatato, i pensieri velocizzati e la mia lucidità si è alterata al punto da provocarmi quasi un attacco isterico. Da dove c**** sbuca la Bosnia, adesso? Mai stata nominata durante il viaggio, tantomeno nominata durante il volo! Da quale angolo del cervello ti è sbucata? Hai la demenza senile? Ti sei completamente rimbambito? È fatta. Ci rimanderanno indietro.
Ricordo che qualcuno mi disse che quando si è nel gabbiotto, se ti minacciano di rispedirti nel Paese di provenienza,
bisogna gridare, sbattere qualcosa e chiede di poter chiamare il proprio avvocato.
La mia avvocato, però, a quest’ora si troverà come minimo a cena in un locale fancy con molto rumore in cui non sentirà il telefono. Guardo mio marito, lui si schiarisce la voce e dice:
“No, scusi…volevo dire Croazia.” L’ufficiale non alza gli occhi.
Poi ci fissa, uno alla volta, minaccioso. Trona a digitare sulla tastiera. Dice qualcosa al suo collega, seduto alla sua sinistra. L’altro gli passa un bicchiere, lui lo appoggia sul bancone. Quei pochi secondi sono diventati ore.
“Siete stati in… Croazia e arrivate dalla Turchia, giusto?”
“Sì” ripetiamo insieme.
“Okay.”
L’ufficiale smette di digitare, sembra non fare nulla, ma trattiene i nostri passaporti. Io ho dimenticato lo zaino sulla sedia dove eravamo seduti. Non ho il coraggio di tornare a prenderlo. Poi l’ufficiale ci dice di sederci di nuovo. Quella situazione dentro a quello stanzino è esattamente come essere a processo.
Un tribunale senza giudici, senza avvocati. Un tribunale in America in cui non sai che reato hai commesso.
Finalmente Tyson ci raggiunge, ci porge i passaporti e ci congeda.
Taxi. Arriviamo a casa.
Comincio a disfare le valigie ma sono troppo stanca. Mi fermo. Doccia.
Prima di buttarmi a letto guardo il telefono. Un istante di esitazione. Riapro la mail? Forse meglio di no, penso, poi va a finire che non mi addormento più. Ma sì.
Apro. Trovo la mail dal consolato americano di Napoli.
Dice che la nostra richiesta per il colloquio d’urgenza è stata accettata e che ci chiameranno il prima possibile. Sono passati tre mesi da quando abbiamo inoltrato la richiesta d’urgenza. Sono passati trenta giorni di attesa in Italia per questa mail, poi altri 14 giorni in giro per l’Europa, sempre in attesa, aprendo quella casella trenta volte al giorno, sperando di trovare la mail del consolato americano che ci convocava. Chiedono se possono considerarci disponibili a presentarci all’ambasciata americana in qualsiasi momento, dato che (secondo loro) siamo in Italia.
La mail ci è stata inviata alle 14:30, ora di Istanbul. Esattamente quando ci stavamo imbarcando per New York.
Il timing è tutto, la tempistica è il nostro destino, mi disse la prima persona che mi fece un colloquio di lavoro a New York.
Welcome back!
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