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Perché ti sei ammazzato, David?
Mi sale un groppo alla gola quando realizzo che te ne sei andato per sempre. Provo un dispiacere tagliente, una disperazione profonda al pensiero che tu, David Foster Wallace, il 12 settembre del 2008, all’età di 46 anni, a Clarement in California dove vivevi con tua moglie e insegnavi da sette anni, ti sia impiccato. Ed è come se avessi saputo la notizia ora. Perché in queste settimane in cui ho esplorato David, mi sono tuffata nel suo mondo, mi ci sono innamorata e l’ho pensato vivo. Ho relegato il fatto che fosse morto in un anfratto della mente, foderandola di gomma piuma per tamponarne l’atrocità. Tempo prima avevo cercato notizie che smentissero l’ipotesi del suicidio, ma non ne esisteva nemmeno una. Quindi, guidata dai suoi scritti, l’ho rincorso come se fosse ancora qui, pronto a sfoderare un prossimo capolavoro. Più lo leggevo, più lo ascoltavo e più lui viveva, pulsava di energia, di arguzia, di ossessività, di generosità. Perché David è un generoso, uno che ama dare. Nei suoi lavori si da senza scrupoli e quando parla agli studenti ci tiene a trasmetter loro le cose più importanti che lui abbia conquistato e per cui abbia lottato:
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l’indipendenza di pensiero;
- lo sviluppo della capacità critica, se mai possibile, verso il sistema, quindi verso tutti gli svincoli di sottosistemi visibili e invisibili che forgiano il nostro pensiero;
- la consapevolezza;
- l’empatia.
Potrei non fermarmi. Sto semplificando, naturalmente. Molto. Lui ci ha impiegato migliaia di pagine per farci fare esperienza delle sue idee e di tutte le loro sfumature e complessità. Perché David non spiegava le cose, infatti anche nei suoi piccoli saggi era un narratore. Provava a farci fare esperienza di quello che aveva vissuto e del suo pensiero.
Il fatto è che più lo leggevo e più la sua vitalità, quindi il suo amore per la vita e la sua curiosità per l’essenza della vita, sgorgavano. La sua volontà di rimanere attaccato alla propria autenticità fluiva come un ruscello in piena. E più mi inoltravo, più il suo suicidio perdeva veridicità. Più proseguivo e più il pensiero della sua morte si offuscava, fino a vanificarsi del tutto, come un’esalazione di fumo si dissipa nell’aria. La sua morte era uno sbotto di fumo nero che spargendosi sulle parole da lui scritte, si dissolveva.
Soffro. Non comprendo. Non ti comprendo, David.
Che lui non fosse più in questo mondo potevo accettarlo solo con l’idea che David non apparteneva alla dimensione che noi conosciamo. A quella di scrittore in senso comune, di studente in senso comune, di talento tennistico, di uomo, di marito, di professore, di cittadino, di americano in senso comune, anche se aveva saputo raccontare tutte queste dimensioni con innalzata genialità, analizzarle nei minimi dettagli e incarnarle. Ma che tu abbia scelto di mollare il percorso affascinante che avevi intrapreso, di abbandonare il tuo talento da scrittore che ti faceva godere infinitamente, ne sono certa, e quindi di rinunciare alla ricerca di significato che stavi facendo, no! Questo non me lo fate accettare.
La difficoltà a scrivere
Credo di poter condividere solo una delle speculazioni fatte sulla tua scelta di ucciderti, David: quella secondo cui tu stessi vivendo un momento di gravissima difficoltà a scrivere, e ti sentissi da tempo insoddisfatto e quindi vedessi impossibile diventare lo scrittore che desideravi, quindi l’uomo che desideravi, aggiungo io. Diamo all’incapacità di scrivere la giusta importanza, quando ricerchiamo le ragioni del suicidio! (dice Megan Wildhood, una giornalista che ha studiato approfonditamente Wallace), prima di cedere alle risposte di una cultura che propone giustificazioni facili ai suicidi convergendole nella “malattia mentale” o nella rassegnazione che non esistano risposte. “Non potremo mai sapere cosa gli passava per la testa”, si usa dire. Ma non per David. David ha lasciato una lettera a sua moglie spiegando le ragioni del suo gesto, sfidando la narrativa del suicidio secondo cui “nessuno a mente lucida si ucciderebbe mai” e che definisce il suicidio stesso una “malattia mentale”. Queste due ragioni, la malattia mentale e il non poter sapere, esonerano con facilità anche la società e la classe di psicologi dall’approfondire e forse dalle responsabilità.
David, il vulcano di David, non era un malato mentale, dice qualcuno. Quello che sappiamo di sicuro è solo che non riusciva più a scrivere.
Che questo fosse dovuto all’ETC e che il sistema sanitario americano dica che non si debba prescrivere l’ECT ai pazienti che tendono a voler uscire dalla dipendenza da psicofarmaci, forse significa che l’ECT non vada più prescritto a nessuno, punto e basta! Sostiene la giornalista Megan dopo aver condotto ricerche. L’ETC, Terapia Elettroconvulsivante, è un trattamento che usa scariche elettriche lievi che provocano leggere convulsioni. Quando lo lessi rimasi scioccata. Non potei far a meno di collegarlo a Hemingway, che si suicidò dopo esser stato sottoposto all’elettroshock. Ma era il 1961. Per David era il 2008! Oggi, negli Stati Uniti, questo trattamento viene ancora effettuato su circa 100,000 persone all’anno.
David soffriva di depressione da quando era adolescente, così si dice. Quando andò a Boston per il suo dottorato, arrivò qualche mese prima e trascorse quel tempo cercando il divertimento estremo con gli amici. Dopo pochi mesi venne ricoverato in una clinica psichiatrica, venne sottoposto a cure con antidepressivi e cominciò il suo percorso per uscire dall’alcolismo.
Io mi sono sempre chiesta: come poteva una mente così, non deprimersi, dato che da sempre cercava un senso per la propria vita che probabilmente non aveva trovato? Ma io mi sono innamorata di te perché pensavo l’avessi trovato, David! Perché quando scrivevi di empatia, dell’importanza dell’empatia verso l’altro, e di “dare valore alla vita degli altri tanto quanto ne diamo alla nostra” mi avevi fatto pensare che questo senso l’avevi trovato. Perché l’avevi fatto un po’ trovare a me e di sicuro ai giovani che ti ascoltavano in quel famoso discorso This is Water, che facesti agli studenti universitari.
This is water, Questa è l’acqua
Il discorso cominciava con due giovani pesci che nuotano e, a un certo punto, incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta e chiede loro: «Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?». I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: «Che cavolo è l’acqua?». Era un discorso sulla consapevolezza, che sfociava nell’inaspettata conclusione che la consapevolezza senza empatia non valeva tanto.
David cominciò a fare in contri con gli alcolisti anonimi, e durante quel percorso conobbe gente che non avrebbe mai conosciuto e che forse, venendo da una famiglia agiata di intellettuali, non aveva mai pensato esistesse. Gente povera, senza istruzione, gente che nella vita non aveva avuto alcuna opportunità. E scoprì l’umiltà.
David, ti dicevo io nel mio sogno mentre ci parlavamo da molto vicino, tu avevi tradotto l’empatia con una forte affermazione politica. “Mi rattristo perché vorrei che la mia generazione realizzasse che sarebbe molto meglio per noi, intendo dentro, nei nostri stomaci, di voler pagare tasse più alte per poter accogliere e nutrire i poveri. Dovremmo diventare il tipo di cultura che non lascia morire la gente. Invece siamo preoccupati del 4% in più sul nostro stipendio che ci affaccendiamo tutti su questo.”
E gli ricordavo di aver detto agli studenti che avevi imparato come “… essere solo un po’ meno arrogante. Avere un po’ di consapevolezza critica verso me stesso e le mie certezze. Considerare che forse la mia lettura iniziale di altre persone non è quella reale. ”
Durante la chiacchierata, quando sentivo il respiro di David vicino al mio viso gli ricordai che aveva raccontato la storia di una situazione quotidiana fastidiosa, e di come spesso diamo per scontato il giudizio peggiore sugli altri. “E (dovremmo) pensare a come metterci al posto di un altro essere umano e a come pensare bene degli altri, invece di dare la peggiore interpretazione possibile di ciò che vediamo.” Io lo amo, pensavo nel sogno, ma il nostro amore non funzionerebbe mai. Chiunque abbia provato ad amarti, secondo me si è sentita o sentito una formichina insignificante di fronte a te. Io sarei troppo piena di complessi, se provassimo a stare insieme. Insomma, giustificavo con me stessa l’impossibilità di un amore. Poi il sogno finiva, si perdeva nel treno di parole mie e sue.
Speculazioni spicce a parte, pensavo da sveglia, va considerato anche il tuo rapporto con la fama, David, un rapporto ambivalente di certo mai risolto. David desiderava molto la popolarità, come ogni scrittore, ma allo stesso tempo sapeva, come scrive in Infinite Jest, che “non era la scappatoia da alcuna trappola.” Le trappole erano la tua ossessione, David. Ne avevi tante e ti piaceva costruirne tante.
La vera libertà per David F. Wallace
Ora, dopo tanto tempo, tutto ciò che posso dire è che non capirò mai.
Anche se con quella strana avidità e fornace di idee che possiedi, sei riuscito a intrappolarmi, come credo tu sia riuscito a fare con tanti altri. Per molti che hanno sentito parlare di te ma non ti hanno letto, hai probabilmente rappresentato un semplicistico lasciapassare all’uso di droghe, allo sballo. Mentre quel che tu racconti è molto più grande. Sono certa che col tuo lavoro sei riuscito a provocare tante persone verso la ricerca di una consapevolezza che ritenevi verosimilmente irraggiungibile, ma che io voglio credere si possa trovare.
E vorrei finire col dirti, non più nel sogno, che mi hai costretto a riflettere in maniera nuova sulla libertà. Perché per te, la vera libertà era un concetto per molti estraneo: “Il tipo di libertà veramente importante implica attenzione, consapevolezza e disciplina, ed implica essere veramente in grado di prendersi cura degli altri e di sacrificarsi per loro più e più volte, in una miriade di modi banali e poco sexy, ogni giorno.”
“L’alternativa è l’incoscienza, l’impostazione predefinita, la corsa del ratto, il senso costante di aver avuto, e perso, qualcosa di infinito.”
Leggi la prima parte dell’articolo: David Foster Wallace 1. Quando persi la testa.
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